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DA O A 2011 E RITORNO

E' un giorno qualunque dell'inizio di un anno qualunque e apri due bottiglie e intanto riassaggi altre bottiglie mezze vuote dei giorni precedenti e vedi distratto un documentario sulla coltura del riso nel nord Italia e leggi la controetichetta di un Cereale Biologico Senza Grassi Tropicali e sbricioli con un dito la mollica della consistenza del gesso di un pane vecchio 2 giorni. 
E poi ti versi i due vini.
E li bevi.
Ed è come un raggio verde. Prima nella tua mente c'era il buio. Poi un crepuscolo. Poi forse una luce forte. 
E senti che, in qualche modo, questi due vini forniranno un trait d'union tra quel baccanale felice che è stato il 2010 e quegli anni 0 che sono stati il dopoguerra italiano. Che ti daranno una storia da raccontare.


I due vini vengono da uve considerate povere, sgraziate, i cugini scemi da fargli saltare la scuola e mandare a lavorare. Due dei tanti Calimero del panorama ampelografico italiano, massificati e mortificati a più non posso fino a qualche anno fa ed ora in odore di santità (quasi). 
E' una storia già sentita quella del recupero dell'autoctono. Una storia recente che salta fuori da una doppia ubriacatura collettiva. 
La prima da quelle forche caudine che sono stati il dopo-guerra e l'industrializzazione. Il benedetto boom economico e una lavatrice in ogni casa e una tabula rasa in ogni pezzo di terra. Una deforestazione amazzonica di vigneti e culture storiche, terre che inghiottiscono chimica come fossero mentine. Ci sono più soldi, ci vogliono più prodotti per far spendere quei soldi. Ergo, vai con le co(u)lture di massa e affanculo i cicli naturali e le varietà che producono poco. E' l'industria, baby, e ti dice questo si, questo no e un tanto al quintale. Da qualche parte, davanti alle masse, le porte spalancate di una Bengodi costruita sulle ceneri dell'agricoltura di qualità (nota 1). Avevamo tirato fuori l'argenteria e messo il vestito della domenica. Ma intanto alla casa scricchiolavano le fondamenta (nota 2).
La seconda sbronza collettiva è figlia della prima. Siamo negli anni '80. I terrorismi sbattono ancora la coda ma sono all'ipossia. Ci stiamo buttando in quella bolla euforica che è la new age del vino di qualità italiano. La Milano da bere e l'alba del dopo Sassicaia. Enotria comincia a fare le flessioni e mette su i muscoli. Basta coi complessi. Siamo tanti, siamo bravi, abbiamo le terre e le uve migliori. E abbiamo qualcosa da dimostrare. Le iperconcentrazioni, le barrique, la tecnologia. Frullano i soldi. Reimpiantare, enologicizzarci, schiantare il resto della concorrenza. Un Brunello (o, almeno, un Chianti) in ogni casa. Cantine ammassate di vino e vendere vendere vendere...
E poi puf...
La bolla è saltata.
Cataste di invenduto. La gggente è stufa. Basta blockbuster wines. Basta vini che sembrano brioche di legno pucciate nell'uva. Basta Cabernet e Merlot (nota 3). Buttiamoci sull'autoctono. Rivalutiamo l'immenso patrimonio di uve del paese. Saliamo sui monti a cercare le viti centenarie. Abbassiamo i gradi (nota 4). Riplasmiamo le uve di serie B, alleniamole e mandiamole in serie A.
E bevibilità. Ecco la parola. In continua redifinizione, dai contorni sfumati. Il concetto forte ancora in forma di slogan e in via di riempimento. C'è una pagina vuota su Wikipedia alla voce Bevibilità. E' ora di darsi da fare. 
E nel mio piccolo laboratorio, nella continua sperimentazione atta a definire tale concetto, questi due vini mi hanno ulteriormente avvicinato alla sua definizione.


Gheppio 2008 (Andrea Bragagni)- Un altro dei bio-qualcosa di Brisighella. Autore di discreti rossi, innesca la marcia superiore coi bianchi. Se qualcuno si imbattesse da qualche parte nella sua Albana Rigogolo 2006 (ma pure nelle altre annate), lo scongiuro di assaggiarla. Minerale, idrocarburica, rieslingeggiante, dolcemente (non nel senso di zuccheri residui) virile. Buonissima. Il Gheppio è il Trebbiano di Romagna. Un autoctono per anni bastonato nelle rese sul quale da poco qualcuno sta cercando di ragionare. Un'uva sparsa per l'Italia cambiando nome e/o struttura genetica (qui Jacopo Cossater  riporta le impressione di una recente degustazione). L'interpretazione che ne dà Bragagni è l'ennesimo knock-out alle idee preconcette. Nel bicchiere ti ritrovi un orange wine. Eppure fa una macerazione breve. Nasi e lo spettro acido che hai nel 90% degli altri Trebbiano, qui non c'è. Ossia, c'è ma è avvolto da altro, rimpolpato e rinvigorito. Avverti la frutta, magari quella di costituzione più aspra, però al massimo della maturità. Le varie componenti sembrano soccorrersi a vicenda, sembrano tamponare gli esuberi per il raggiungimento di uno scopo comune. Che è la beva, densa e leggermente tannica e leggermente acida e leggermente dolce. Quando leggermente+leggermente+leggermente fanno la forza. 90/100.


Pratoasciutto 2006 (Tenuta Grillo)- Dalla sua tenuta piemontese, ecco il Dolcetto di Guido Zampaglione. Dolcetto che è il paradigma perfetto dell'autoctono made in Italy. Prima, uva quotidiana da vino leggero, acido, primario nei sapori. Poi, la parkerizzazione, legni nuovi, strutture da grande vino, 3bicchieramenti e giù di lì. Poi qualche retromarcia. E quella di Zampaglione che è la terza via. Ossia, un vino che va dalle parti del Rodano. Passando per i dettami dell'azienda: vigne in biodinamica, lieviti indigeni, lunghe macerazioni. Ed eccoci un Dolcetto dal colore denso ma non inchiostro. Dagli odori amplissimi, animali e terrosi e surmaturi, e in continua mutazione nelle ore con sempre più definite la frutta e le spezie. Dalla bocca grintosa ma non nervosa, armonica e scattante.  Come un Cornas di Allemand. Come un Faugeres di Barral. Come una Nadia Comaneci. 92/100.


Nota 1: qui si vorrebbe solo parlare del coma farmacologico che ha vissuto l'agricoltura (e, in specifico, la viticoltura) fino a qualche decennio fa. Lungi da me, quindi, ogni qualsivoglia giudizio morale derivato da una sommaria ricostruzione dei fatti. Essere contadini era (ed è) una fatica immane e tutta la meccanizzazione e la fitofarmacologia propagatasi nel secolo scorso sono apparsi come una luce in fondo al tunnel del lavorare-come-bestie. Basta parlare con qualche contadino anziano (in quell'epoca si diceva vecchio). Si tratta di un'epoca in cui le parole coscienza ed ecologica non stavano nella stessa frase. Un'epoca in cui si fumava in faccia ai bambini, si buttavano le cartacce per terra, si guardavano le ciminiere fumare nel cielo la scritta "Lavoro, lavoro!". Un'epoca che aveva conosciuto le brutture più grandi ed ora voleva solo progredire e stare meglio. Contestualizzare, in certi casi, ci aiuta a focalizzare e ad aiutare uno sforzo di comprensione.


Nota 2: e tocca ripetere che questo processo di annientamento di un patrimonio agricolo è stato molto meno selvaggio in Francia, paese nel quale l'idea di patrimonio culturale è ben più di un motto per riempirsi la bocca ma viene trattato nei 360° della sua articolazione. Quelli lì (cioè i francesi) hanno trovato naturale salvaguardare ogni prodotto del comparto agro-alimentare intendendolo non solo come una conservazione del retaggio culturale della loro grandeur, ma anche come investimento economico a lungo, medio e anche breve termine. E ora le loro viti di 50, 60, 100 anni sono ancora lì, curate come giardini zen, a garantire spesso una marcia in più a chi le lavora in modo corretto.


Nota 3: siamo in una fase di riflusso o di reindirizzamento della Storia enologica. Quindi c'è grossa confusione. Fuori e dentro di noi. Un po' come quando si passa da un ideale femminile che collima al 99% con una Brigitte Bardot, verso un'immaginario efebico e ossuto tipo Kate Moss. Possono scoppiare delle guerre di religione. E possono scappare bizzarre affermazioni del tipo che Cabernet e Merlot si assomigliano tutti e che fanno vini troppo potenti e che sovrastano il territorio e che sono troppo facili da coltivare e le vere sfide sono altre, insomma, che dovrebbero vergognarsi (il Cabernet e Merlot) di essere belli e bravi e geneticamente un po' meglio del 90% delle uve.  


Nota 4: questa affermazione proprio non resisto a non metterla nella categoria Fregnacce.

Commenti

  1. Gran bel post Eugenio.
    Alla luce dell'analisi che fai sopra altri trebbiano ancor più meritevoli sono quelli di Guccione dalla Sicilia, perchè li si la coltivazione del trebbiano fu figlia di una logica meramente produttiva (sole+uva_facile+rese_altissime). Se ben ci pensi il trebbiano in Sicilia centra come il grillo in Emilia.
    A presto.

    P.S.: ci sei i primi di marzo ad Agazzano vero?

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  2. Guccione non l'ho mai sentito. Provvederò alla mancanza, anche perché stiamo organizzando una degustazione di Trebbiano. Riguardo il Grillo in Emilia, devo dirlo ad un amico produttore che s'è messo a piantare le cose più strane chiamando la cosa "Sperimentazione ampelografica". Ad Agazzano ci vado sicuro: l'anno scorso è stata molto divertente, discreta organizzazione e tanti incontri felici. Se poi c'è ancora Cornelissen...

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  3. Grande albana di Bragagni,BEVIBILITA' a secchi, un solo difetto bottiglia magnum.Mi piacerebbe partecipare alla degustazione di trebbiani sempre se possilbile.Ciao Mugellesi Ivano

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  4. Ovviamente non solo possibile ma auspicato. In questi giorni devo contattare Diego de Le Lune per l'organizzazione. Sei vai nel mio profilo blogger c'è la mail dove puoi contattarmi. A presto.

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  5. Guccione fa trebbiano in Sicilia, se l'he trovato in eredità, credo piantato dal padre nel dopoguerra a fronte di incentivi statali per la grande produttività e le poche difficoltà di coltivazione del vitigno. Al posto che spiantarlo ha provato a vinificarlo a regola d'arte. I risultati ci sono.
    Li trovi su sorgente del vino, i trebbiani a prezzi decisamente popolari, tra l'altro.
    Se li provi fammi sapere che son curioso. Qualche info la trovi qui: http://www.guccione.eu/
    E se possibile, lavoro permettendo, parteciperei anche io alla degustazione sul trebbiano.
    A presto.
    Gabry

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  6. Grazie per le informazioni. Se partecipa ad Agazzano, li assaggerò sicuramente. Per la serata trebbianesca, ho sentito Diego e passo da lui la prossima settimana per organizzare la cosa. Poi ti mando per mail le informazioni necessarie. Tu continua ad allenarti: mi raccomando, almeno una bottiglia al giorno se no mi vai giù di forma. A presto.

    RispondiElimina
  7. se fosse possible manda una mail anche a me che di trebbiano ne ho un po' e vedi mai ...oppure comunica al grande Succi che se venisse anche lui ,magari mi aggrego in qualità di Emiliano non praticante! ciao GP

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  8. Oggi vado dal grande e grosso Succi e vedo di coinvolgerlo. Dopodiché sarai praticamente costretto a venire per non offendere la sua grande e grossa sensibilità. Ti faccio sapere. Ciao

    RispondiElimina

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