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IL RE (ANZI, IL CONTE) E' NUDO (ANZI, ABBASTANZA VESTITO)

Facciamo un gioco. Proviamo ad unire due cose, a fare delle libere associazioni mentali, a buttare lì dei concetti. Circuitiamo mentalmente (siamo su internet la cui struttura è basata sull'idea di link, di rimandi continui ad altri concetti, di "io apro una pagina e questa mi porterà ad un'altra pagina e poi un'altra fino all'infinito", di rizoma*). Le due cose sono queste:
1) 1970
2) Sicilia.

Il 1970 è l'epoca della post-sbornia euforica degli anni '60, dell'Italia-Germania 4 a 3, delle lotteoccupate e del contestatutto, del primo volantino BR, dello scudetto al Cagliari, si sciolgono i Beatles, si vara lo Statuto dei lavoratori, nasco io.
La Sicilia e il sole, l'Etna, la Mafia, gli agrumi, Pirandello, la cassata, il Barocco, i normanni, il mare, Franchi e Ingrassia, i Greci. Il vino.

Nel '70 l'Italia vinicola è ancora sotto lo schianto industrializzante. Iperproduzione, abbandono delle varietà poco redditizie, conoscenza delle zone vocate ridotta al lumicino. Le zone storiche (Piemonte e Toscana) vivono di qualche sprazzo isolato. I francesi invece sono pronti e coscienziosi, tutto catalogato e diviso per terroir metro per metro. E il nuovo mondo è ancora di là da venire.
Oddio, qualche barlume da noi c'è. Da un paio d'anni si imbottiglia Sassicaia. Dei signori in Piemonte che continuano ostinatamente a cercare la qualità. Veronelli che corre come un matto a cercare là dove trova una scintilla per poi martellare come può la testa di noi poveri italiani.
Ma soprattutto è ovunque la grande massa. Di gente che può arrivare a consumare di più, a concedersi qualche lusso. Di vino, di milioni di bottiglie che cercano di far
conoscere il vino italiano, anche nel mondo (ricordate quei bei film dalla fotografia color fluo con sullo sfondo una bottiglia di Punt e Mess e in tavola una di Corvo di Salaparuta?). Ecco, la Sicilia degli sterminati vigneti era una vera locomotrice in questo senso. E la Sicilia, però, covava in sé un tesoro ampelografico di rara importanza. Il Grillo, l'Insolia, il Cataratto, i Nerello, il Frappato, il Perricone, il Nero d'Avola. Tutto sarebbe stato più chiaro nei decenni successivi. Ma una qualche intuizione ci fu. E proprio dall'interno di una di quelle tenute milion-bottiglianti. La Tasca d'Almerita. Quella del Conte. E proprio un Conte in quei duri-e-puri anni '70 compì un atto politico importante (laddove un atto politico è azione diretta e cosciente di miglioramento della realtà presente): la creazione di un vino il cui scopo prefissato era il raggiungimento del massimo grado di qualità.
Parlo naturalmente del Rosso Del Conte.

Ne parlai qui, spiegando soprattutto quello che rappresentò per un'epoca e cosa è diventato adesso. Ma ora voglio concentrarmi sulla gloria e sui fasti antichi ma, se fortunati, ritrovabili ancora. E se parlo di fortuna, intendo la fortuna di imbattersi nelle annate 1992, 1993 e 1994.


Allora. Rosso Del Conte nasce, appunto, nel 1970 ed è Nero d'Avola di vecchie vigne ad alberello e una piccola
aggiunta di Perricone. Affinato in grandi botti di castagno fino al 1988, poi botti di rovere di Slavonia da 30 e 40 ettolitri e dall'annata 1992 botti di rovere francese da 350 litri. Vini di detonante potenza, di spettro olfattivo fuori scala (immaginate di mettere nella vostra pozione terra, frutti rossi, spezie, zucchero, ali di pipistrello, agrumi, alcole mescolate e fate la magia). In tutto ciò, un equilibrio quasi misterico, niente di seduto o molle. E una percezione di naturalità che ne avrebbe (pensavo) mantenuto la bontà per decenni. Ma vediamo come sono andate le cose. Vediamo se il Re (di Sicilia) è nudo o anche solo in mutande.

1992: all'uscita era una delle edizioni meno potenti pur mantenendo le caratteristiche del vino. Cioè, era lui ma tutto più in piccolo. E ora, alla maggiore età, qualche cedimento lo accusa. Qualche ruga. Un dolorino al ginocchio. Meno capelli. La terziarizzazione si è quasi completata. Niente di drammatico. Solo un ulteriore assottigliamento per una bottiglia ancora buona e con quel velo di acidità a dargli un tono. E cui concedere degli sconti critici per i 18 anni. 84/100.



1993: "cosa? si può fare un vino così?" Questo più o meno pensai all'epoca dell'uscita. Magari le esperienze erano diverse, magari ero giovane, magari tutto ma quello fu un riparametrizzare il gusto del vino. Se il vino è uva + terra + sole e qualche uomo che non sbagli niente, allora qui eravamo vicino alla deità. Un incastrarsi di componenti (tannini, alcool, acidità) in grado di formare un monolite dagli angoli smussati. E ora? Ora Esso c'è. Di ottima freschezza, di aromaticità placida e distesa (qualcosa di stallatico certo, ma ancora frutta rossa e marmellata non ossidata). Bocca che richiede una seconda sorsata perché la prima è scesa quasi senza accorgersene. Quasi selvaggio il rimando ai sapori che mutano (non decadono). I primi cedimenti paiono poca roba. Se tutto invecchia e si deteriora e poi muore, qui questa discesa appare rallentata e rarefatta. E ciò che si perde in agilità e potenza, si compensa in accortezza e misura. 90/100.


1994: grande edizione anche questa del signor Conte. Bevuto all'epoca se la giocava col 1993. Chi lo riteneva inferiore, lo trovava meno espressivo, più fermo e duro negli odori. Altri invece ne presagivano una grandiosa terza età proprio per questo suo promettere e non mantenere fino in fondo. E' forse quello dei tre che è cambiato meno. Quello che un vestito aveva e anche ora ha. Più spiegazzato e con qualche toppa, ma sempre lui. Difficile trovare difetti se non, ancora, l'età e il conseguente alleggerimento dei sapori. Difficile pensare quanto ancora potrà rimanere così, cedendo poco a poco i rimandi al frutto alle speziature, ai sapori di terra e fungo. Di certo nell'arco delle ore nel bicchiere poco o nulla ha ceduto. Ma poco importa, qui si celebra un inno alla vita/e ancor più quando si va al declino. 88/100.


*Da, naturalmente, Wikipedia: La metafora del rizoma è stata adottata da Gilles Deleuze e Felix Guattari per caratterizzare un tipo di ricerca filosofica che procede per multipli, senza punti di entrata o uscita ben definiti e senza gerarchie interne; questa è anche la prospettiva di scrittura e di interpretazione proposta in una delle loro opere principali, Millepiani, ovvero la seconda parte dell'Antiedipo, dedicato alla ricostruzione dei nessi profondi fra capitalismo e schizofrenia. In questa opera, Deleuze-Guattari contrappongono la concezione rizomatica del pensiero a una concezione arborescente, tipica della filosofia tradizionale, la quale procede gerarchicamente e linearmente, seguendo rigide categorie binarie ovvero dualistiche; il pensiero rizomatico, invece, è in grado di stabilire connessioni produttive in qualsiasi direzione.

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