"Se uno va al ristorante e si ritrova nel piatto una bistecca cattiva o bruciacchiata non è che decide di andare a fare un corso per capire la struttura della carne in modo da poter esprimere un giudizio, ma si limita a dire al cameriere di portarsi indietro quella schifezza. Allo stesso modo, se un vino non è gradevole ai sensi è perché -analiticamente e qualitativamente- non è 'a punto' (...) Dobbiamo dare fiducia. Perché una persona può giudicare una bistecca e diventa un perfetto cretino se parla di vino?"
Luca Maroni, dichiarazione al Vinitaly 2000.
Perché se uno vuole parlare di un recente viaggio nel sud della Francia e dei relativi assaggi ed esperienze gastronomiche, parte da una dichiarazione del guru-de'-noantri di ben (nel vino ogni anno si calcola come ai gatti) 10 anni fa?
Che c'azzecca il lapalissiano scardinare le sicumere dei soloni dell'assaggio (e assicuriamo che di sicumere e di soloni era/è pieno il mondo e comprendiamo anche come, ironicamente, certe sicumere maroniane appaiano ora smontabili come un castello della Lego) con sbevazzate di Morgon, grenache biodinamiche e avventurose escursioni nel regno dell'andouillette?
C'azzecca per una serie di motivi. Perché 10 anni fa pensavo che la Francia fosse molto fumo (=capacità di vendere anche solo l'idea di qualcosa) e qualche pezzo d'arrosto (bruciacchiato) mentre in Italia di fumo ne avevamo negli occhi e di arrosti una marea ma ancora da cucinare. Perché pensavo che parte della propaganda agroalimentare francese si basasse solo sulla loro capacità di studiare e analizzare e catalogare tutto (ahh, il terroir...) e poi metterci un bel fiocco sopra con la scritta grandeur a lettere cubitali, mentre in Italia gli avremmo fatto un mazzo tanto con formaggi, uve, carni e verdure pur se tutto fatto un-po'-alla-cazzo (il concetto di terroir all'italiana).
E perché pensavo che la figura del sommelier (in origine il significato era "conducente di bestie da soma" e la onomastica un senso ce l'ha) è nata da loro come derivazione di tutta la fuffa attorno al vino, di tutto quel mischiare termini e algoritmi degustativi per cui se un vino ti fa schifo, allora A) è troppo giovane e bisogna attendere almeno 700 lune nuove, B) quello che tu provi non è schifo ma solo inesperienza nell'apprezzare una sana rasoiata in bocca e quello che chiami 'odore di merda' è invece goudron con meravigliosi rimandi a campi provenzali irrorati di sano letame, C) e comunque non rompere i coglioni dato che è un perfetto abbinamento alla tua bistecca bruciacchiata poiché l'acidità crepa-palato viene a bilanciare il rimando al carbone che poi è tamponato dalla puzza (cioè, goudron) che poi è annullata dai tannini verdi che poi quel bruciato non te lo ricordi più. Mentre in Italia degustare era ingollare.
Luca Maroni, dichiarazione al Vinitaly 2000.
Perché se uno vuole parlare di un recente viaggio nel sud della Francia e dei relativi assaggi ed esperienze gastronomiche, parte da una dichiarazione del guru-de'-noantri di ben (nel vino ogni anno si calcola come ai gatti) 10 anni fa?
Che c'azzecca il lapalissiano scardinare le sicumere dei soloni dell'assaggio (e assicuriamo che di sicumere e di soloni era/è pieno il mondo e comprendiamo anche come, ironicamente, certe sicumere maroniane appaiano ora smontabili come un castello della Lego) con sbevazzate di Morgon, grenache biodinamiche e avventurose escursioni nel regno dell'andouillette?
C'azzecca per una serie di motivi. Perché 10 anni fa pensavo che la Francia fosse molto fumo (=capacità di vendere anche solo l'idea di qualcosa) e qualche pezzo d'arrosto (bruciacchiato) mentre in Italia di fumo ne avevamo negli occhi e di arrosti una marea ma ancora da cucinare. Perché pensavo che parte della propaganda agroalimentare francese si basasse solo sulla loro capacità di studiare e analizzare e catalogare tutto (ahh, il terroir...) e poi metterci un bel fiocco sopra con la scritta grandeur a lettere cubitali, mentre in Italia gli avremmo fatto un mazzo tanto con formaggi, uve, carni e verdure pur se tutto fatto un-po'-alla-cazzo (il concetto di terroir all'italiana).
E perché pensavo che la figura del sommelier (in origine il significato era "conducente di bestie da soma" e la onomastica un senso ce l'ha) è nata da loro come derivazione di tutta la fuffa attorno al vino, di tutto quel mischiare termini e algoritmi degustativi per cui se un vino ti fa schifo, allora A) è troppo giovane e bisogna attendere almeno 700 lune nuove, B) quello che tu provi non è schifo ma solo inesperienza nell'apprezzare una sana rasoiata in bocca e quello che chiami 'odore di merda' è invece goudron con meravigliosi rimandi a campi provenzali irrorati di sano letame, C) e comunque non rompere i coglioni dato che è un perfetto abbinamento alla tua bistecca bruciacchiata poiché l'acidità crepa-palato viene a bilanciare il rimando al carbone che poi è tamponato dalla puzza (cioè, goudron) che poi è annullata dai tannini verdi che poi quel bruciato non te lo ricordi più. Mentre in Italia degustare era ingollare.
L'uso dell'imperfetto pensavo lascia chiaramente intendere che le cose non sono più così per me. Non completamente, almeno.
Non c'è nulla in un qualsiasi luogo comune che possa contenere la complessità di una popolazione, men che meno ciò che deriva da qualche esperienza limitata nel tempo. Però, nel comparto enologico, l'idea di superbia che spesso si associa ai francesi, va a braccetto con un concetto meno negativo: l'orgoglio. Pur nell'ampio ventaglio di tipologie umane che vanno dalla timidezza alla sfrontataggine, il produttore francese è solitamente orgoglioso della sua terra, dei suoi vigneti, ergo del suo vino. Che non significa che lo giudichi il migliore del mondo, ma solo che è il migliore (o il tentativo di essere tale) prodotto ottenibile da quella terra, da quel terroir (ancora). L'orgoglio, unito ad un approccio culturale quasi all'opposto che in Italia, lo ha portato ha preservare i vecchi vigneti, a salvaguardare quel patrimonio ampelografico come un tesoro vivente, pulsante. L'idea che la qualità (e la capacità di vendere al resto del mondo questa qualità) doveva essere il marchio di fabbrica della produzione francese. Qui si è operata una frattura con l'Italia. Con l'Italia dei vecchi vigneti rasi al suolo, degli impianti modernizzati e via quei vecchi vigneti che ti cacano un grappolo ogni tanto, del tanto-vino-per-tutti. Mesi fa, parlando con Gianmarco Antonuzi de Le Coste e delle sue esperienze in Francia (ha lavorato da Leon Barral nel Faugeres, in Borgogna da Pacalet, nel Rodano da Dard & Ribo), ci disse che il grande vantaggio i francesi ce l'hanno sul campo, ossia nell'età dei vigneti e nella terra: hanno preservato le vigne vecchie, vecchissime, guardandole come si venera una quercia secolare e hanno iniziato moooolto prima di noi a lavorare la terra in maniera naturale e da tutto ciò derivano terre sane, vigneti quasi auto-regolantesi, vini profondi e complessi, vini più scontrosi all'inizio ma capaci di mutazioni incredibili nel bicchiere e capaci di durare giorni all'apertura (vedi nota 1), vini che vengono da uve che quasi se ne fregano di un elemento accessorio come il contenitore, che sia legno grande o piccolo, sporco o pulito.
Non tutti, d'accordo, ma molto più che noi (vedi nota 2).
E tutto questo è fondamentale. E tutto questo rimanda all'altro punto ancora-più-fondamentale. Come sono questi vini.
Acidità. Questa parolaccia è la chiave. Per anni mi è parsa una montatura della critica filo-francese. O mio Dio, questo vino è troppo potente, troppo saporito, troppo tutto; non sono abituato, non riesco a mandarlo giù, ci vorrebbe una bella bomba di acido tartarico (vedi nota 3). E via a dire come un mantra: l'acidità dà beva, conserva il vino, cura l'alopecia; l'acidità fornisce tensione ad un bicchiere altrimenti mollo, faticoso, tutto estratto e tannini e marmellata. L'acidità come Presidente dei Vini Leggeri.
Per anni mi è parsa una scorciatoia. O una giustificazione per vini non maturi e/o geneticamente inferiori. Solo qualche mese fa ad un convegno sul Sangiovese di Romagna, si sentivano tutti rimpiangere quei vecchi e cari (non di prezzo) e simpatici sangiovesi di una volta con poco alcool, poco colore, poco sapore e una bella sferzata acida in bocca (vedi nota 4). Ma le cose cambiano. Certe sinapsi nel cervello si attivano, altre si bruciano. Non sono ancora passato al lato oscuro della Forza, però. Però esistono vini ai quali una venatura acida dona dinamicità, li aiuta. Una venatura acida senza asprezze innaturali ma, in fondo in fondo, piacevole.
Questa cosa mi si è formata in testa bevendo con dei produttori qui da noi e si è messa più a fuoco nei giri in Francia. Lì c'hanno la fissa dell'acidità. Vai nei bistrot-gourmand con scaffali mezzi sepolti di vini bio, stretto come un'acciuga nel tuo mezzo tavolino (l'immortale ipersfruttamento dello spazio nei locali francesi) e il tipo inizia delle descrizioni fantastiche di terreni e spezie orientali e bocche morbide come seta con un fantasmagorico finale, indovinate, acido.
Esempio pratico: questo vino l'ho bevuto in una cave à fromage a Nizza. Posto carino segnalato da Olivier de La Part des Anges (enoteca fantastica ricolma di ogni ben di Dio, anzi di Bio). Inizio a cercare col cameriere cosa bere. Ogni vino viene descritto al millimetro, dalla zona di produzione a cosa andrai a sentirci dentro. Non importa se le bottiglie cambiano, se le sensazioni cambiano da persona a persona: lui ti dice cosa stai per bere, ti vuole ammaliare e/o renderti la vita facile. Tira fuori questa bottiglia. Morgon P'tit Max 2005 di Guy Breton. Vigne di 70 anni di Gamay. Macerazione medio-lunga. Alcool 13°. Euro 25. E' un vino molto giovane (ed è interessante notare come quasi qualsiasi vino in Francia sia considerato giovane, da aspettare, da maturare). E starò per sentirci umori di terra e piccoli frutti rossi, una leggera nota fumosa che sparirà nell'arco di 25-30 minuti, una leggerissima pungenza aspra al naso che accompagnerà poi la sorsata rendendola più lunga. Mi fido. Arriva al tavolo, scaraffa (di solito li blocco ma lui mi era simpatico e mi sarebbe parso di deluderlo). Lo versa e sento tutto quello che aveva detto. Cioè, sento le categorie generali della sua descrizione. Però tutto in un quadro rarefatto. I suoi colori sono solo un po' più sbiaditi, la frutta inizia ad ossidarsi, gli umori di terra virano verso l'humus. L'acidità è notevole e lascia la bocca pulita e non allunga la sorsata. E in questa espressione di vino a consistenze minime ci può stare. Bere e gustare questo vino è molto esercizio mentale e rimandi poetici e costruzione di un'emozione, e meno effettiva sensazione tattile.
Ecco, i francesi mi hanno ancora regalato una grossa suggestione, mi hanno raccontato una storia bellissima e fatto rendere omaggio a le Roi le Vin e la cosa non è di per sé né bella né brutta, non spiacevole o inutile. Se il vino è in parte mistica, loro questa parte la usano per addobbare un Tempio al quale siamo tutti invitati prestando attenzione alla loro liturgia. E' una forma contorta di democratizzazione che a qualcuno può non piacere, che qualcuno può rinnegare alzando gli occhi all'altare e scoprendo che questo Dio non c'è o è da un'altra parte. Ma ogni tanto accendere un cero non fa male.
nota 1: Forse è da questo che deriva una certa fissazione nello scaraffare i vini, cosa che tutti ma proprio tutti (secondo una statistica personale dalle basi assolutamente scientifiche, ossia fatta-alla-cazzo), dal bar stile Caracas con qualche vino fino al 3 stelle, fanno senza chiedere nulla ma semplicemente come gesto naturale perché quella cosa che hanno in mano è preziosa e deve essere onorata e trattata coi guanti (cioè, col decanter) e deve aprirsi e respirare, e allora niente di meglio di una bella botta del signor Ossigeno. Questo naturalmente senza ignorare l'aspetto puramente coreografico della cosa che nei francesi sembra prendere spesso la forma della sostanza, non sostituendola ma, diciamo, completandola; e senza ignorare la sostanziale inutilità nel 90% dei casi.
nota 2: Il vino naturale da noi è forse ancora un vagito e tutto pare frantumarsi, atomizzarsi tra associazioni, certificazioni, scissioni che tendono a spaccare il capello in 4. Senza la capacità di fare fronte che hanno i francesi in quasi ogni ambito, ci si ritrova a fare battaglie in solitaria, a confondere il consumatore. E sarebbe un'altra interessante analisi quella che vada a capire cosa è un consumatore, cosa cazzo vuole, quanto la vuole, perché la vuole, dove finiscono i suoi soldi; ossia un'analisi che faccia capire intanto se c'è qualcuno che ascolta e, nel caso, in che lingua parlargli. Questo anche per uscire dall'orticello delle solite facce e dei soliti 4 gatti che popolano le varie ferie collaterali a cui fa riferimento ancora Radikon quando dice ciao ciao a tutti e se ne va al Vinitaly delle meraviglie commerciali. Che si fa? Tutti dietro a Radikon e ognun per sè? Uniamo le fiere vino-veriste da qualche parte o da qualche parte che è il Vinitaly? La questione è lunga e dovunque la tocchi sento delle spine.
nota 3: Certo è divertente sentire come Radikon ebbe una prima intuizione verso quello che sarebbe diventata la sua ricerca nella macerazione dei bianchi:
"Un segnale "divino" arriva nell'annata '85. Siamo in giugno, una grandinata dirada notevolmente l'uva in vigna. Però quel poco che rimane è sano e figlio di un'annata ottima, sebbene con uve che hanno minore acidità rispetto ai parametri abituali. Per aumentarne il livello, ci vuole un'integrazione con l'acido tartarico, ma dai dati delle analisi di laboratorio, emerge che si dovrebbe fare un'aggiunta notevole, esagerata, e così si decide di lasciare tutto come la natura ha stabilito in quell'annata. I risultati furono sorprendenti, vini ottimi che però il mercato non apprezzò. Per Stanko era, però, il chiaro segnale che la via, che il destino aveva indicato, era quella giusta."
Il resto dell'articolo con intervista è qui.
nota 4: Ma tu guarda cosa scriveva qui qualche anno fa Roberto Gatti riguardo alla nuova tendenza critica demolitrice dei vinoni tutta ciccia e alcool. Per me è 1 a 0 e palla al centro.
Non c'è nulla in un qualsiasi luogo comune che possa contenere la complessità di una popolazione, men che meno ciò che deriva da qualche esperienza limitata nel tempo. Però, nel comparto enologico, l'idea di superbia che spesso si associa ai francesi, va a braccetto con un concetto meno negativo: l'orgoglio. Pur nell'ampio ventaglio di tipologie umane che vanno dalla timidezza alla sfrontataggine, il produttore francese è solitamente orgoglioso della sua terra, dei suoi vigneti, ergo del suo vino. Che non significa che lo giudichi il migliore del mondo, ma solo che è il migliore (o il tentativo di essere tale) prodotto ottenibile da quella terra, da quel terroir (ancora). L'orgoglio, unito ad un approccio culturale quasi all'opposto che in Italia, lo ha portato ha preservare i vecchi vigneti, a salvaguardare quel patrimonio ampelografico come un tesoro vivente, pulsante. L'idea che la qualità (e la capacità di vendere al resto del mondo questa qualità) doveva essere il marchio di fabbrica della produzione francese. Qui si è operata una frattura con l'Italia. Con l'Italia dei vecchi vigneti rasi al suolo, degli impianti modernizzati e via quei vecchi vigneti che ti cacano un grappolo ogni tanto, del tanto-vino-per-tutti. Mesi fa, parlando con Gianmarco Antonuzi de Le Coste e delle sue esperienze in Francia (ha lavorato da Leon Barral nel Faugeres, in Borgogna da Pacalet, nel Rodano da Dard & Ribo), ci disse che il grande vantaggio i francesi ce l'hanno sul campo, ossia nell'età dei vigneti e nella terra: hanno preservato le vigne vecchie, vecchissime, guardandole come si venera una quercia secolare e hanno iniziato moooolto prima di noi a lavorare la terra in maniera naturale e da tutto ciò derivano terre sane, vigneti quasi auto-regolantesi, vini profondi e complessi, vini più scontrosi all'inizio ma capaci di mutazioni incredibili nel bicchiere e capaci di durare giorni all'apertura (vedi nota 1), vini che vengono da uve che quasi se ne fregano di un elemento accessorio come il contenitore, che sia legno grande o piccolo, sporco o pulito.
Non tutti, d'accordo, ma molto più che noi (vedi nota 2).
E tutto questo è fondamentale. E tutto questo rimanda all'altro punto ancora-più-fondamentale. Come sono questi vini.
Acidità. Questa parolaccia è la chiave. Per anni mi è parsa una montatura della critica filo-francese. O mio Dio, questo vino è troppo potente, troppo saporito, troppo tutto; non sono abituato, non riesco a mandarlo giù, ci vorrebbe una bella bomba di acido tartarico (vedi nota 3). E via a dire come un mantra: l'acidità dà beva, conserva il vino, cura l'alopecia; l'acidità fornisce tensione ad un bicchiere altrimenti mollo, faticoso, tutto estratto e tannini e marmellata. L'acidità come Presidente dei Vini Leggeri.
Per anni mi è parsa una scorciatoia. O una giustificazione per vini non maturi e/o geneticamente inferiori. Solo qualche mese fa ad un convegno sul Sangiovese di Romagna, si sentivano tutti rimpiangere quei vecchi e cari (non di prezzo) e simpatici sangiovesi di una volta con poco alcool, poco colore, poco sapore e una bella sferzata acida in bocca (vedi nota 4). Ma le cose cambiano. Certe sinapsi nel cervello si attivano, altre si bruciano. Non sono ancora passato al lato oscuro della Forza, però. Però esistono vini ai quali una venatura acida dona dinamicità, li aiuta. Una venatura acida senza asprezze innaturali ma, in fondo in fondo, piacevole.
Questa cosa mi si è formata in testa bevendo con dei produttori qui da noi e si è messa più a fuoco nei giri in Francia. Lì c'hanno la fissa dell'acidità. Vai nei bistrot-gourmand con scaffali mezzi sepolti di vini bio, stretto come un'acciuga nel tuo mezzo tavolino (l'immortale ipersfruttamento dello spazio nei locali francesi) e il tipo inizia delle descrizioni fantastiche di terreni e spezie orientali e bocche morbide come seta con un fantasmagorico finale, indovinate, acido.
Esempio pratico: questo vino l'ho bevuto in una cave à fromage a Nizza. Posto carino segnalato da Olivier de La Part des Anges (enoteca fantastica ricolma di ogni ben di Dio, anzi di Bio). Inizio a cercare col cameriere cosa bere. Ogni vino viene descritto al millimetro, dalla zona di produzione a cosa andrai a sentirci dentro. Non importa se le bottiglie cambiano, se le sensazioni cambiano da persona a persona: lui ti dice cosa stai per bere, ti vuole ammaliare e/o renderti la vita facile. Tira fuori questa bottiglia. Morgon P'tit Max 2005 di Guy Breton. Vigne di 70 anni di Gamay. Macerazione medio-lunga. Alcool 13°. Euro 25. E' un vino molto giovane (ed è interessante notare come quasi qualsiasi vino in Francia sia considerato giovane, da aspettare, da maturare). E starò per sentirci umori di terra e piccoli frutti rossi, una leggera nota fumosa che sparirà nell'arco di 25-30 minuti, una leggerissima pungenza aspra al naso che accompagnerà poi la sorsata rendendola più lunga. Mi fido. Arriva al tavolo, scaraffa (di solito li blocco ma lui mi era simpatico e mi sarebbe parso di deluderlo). Lo versa e sento tutto quello che aveva detto. Cioè, sento le categorie generali della sua descrizione. Però tutto in un quadro rarefatto. I suoi colori sono solo un po' più sbiaditi, la frutta inizia ad ossidarsi, gli umori di terra virano verso l'humus. L'acidità è notevole e lascia la bocca pulita e non allunga la sorsata. E in questa espressione di vino a consistenze minime ci può stare. Bere e gustare questo vino è molto esercizio mentale e rimandi poetici e costruzione di un'emozione, e meno effettiva sensazione tattile.
Ecco, i francesi mi hanno ancora regalato una grossa suggestione, mi hanno raccontato una storia bellissima e fatto rendere omaggio a le Roi le Vin e la cosa non è di per sé né bella né brutta, non spiacevole o inutile. Se il vino è in parte mistica, loro questa parte la usano per addobbare un Tempio al quale siamo tutti invitati prestando attenzione alla loro liturgia. E' una forma contorta di democratizzazione che a qualcuno può non piacere, che qualcuno può rinnegare alzando gli occhi all'altare e scoprendo che questo Dio non c'è o è da un'altra parte. Ma ogni tanto accendere un cero non fa male.
nota 1: Forse è da questo che deriva una certa fissazione nello scaraffare i vini, cosa che tutti ma proprio tutti (secondo una statistica personale dalle basi assolutamente scientifiche, ossia fatta-alla-cazzo), dal bar stile Caracas con qualche vino fino al 3 stelle, fanno senza chiedere nulla ma semplicemente come gesto naturale perché quella cosa che hanno in mano è preziosa e deve essere onorata e trattata coi guanti (cioè, col decanter) e deve aprirsi e respirare, e allora niente di meglio di una bella botta del signor Ossigeno. Questo naturalmente senza ignorare l'aspetto puramente coreografico della cosa che nei francesi sembra prendere spesso la forma della sostanza, non sostituendola ma, diciamo, completandola; e senza ignorare la sostanziale inutilità nel 90% dei casi.
nota 2: Il vino naturale da noi è forse ancora un vagito e tutto pare frantumarsi, atomizzarsi tra associazioni, certificazioni, scissioni che tendono a spaccare il capello in 4. Senza la capacità di fare fronte che hanno i francesi in quasi ogni ambito, ci si ritrova a fare battaglie in solitaria, a confondere il consumatore. E sarebbe un'altra interessante analisi quella che vada a capire cosa è un consumatore, cosa cazzo vuole, quanto la vuole, perché la vuole, dove finiscono i suoi soldi; ossia un'analisi che faccia capire intanto se c'è qualcuno che ascolta e, nel caso, in che lingua parlargli. Questo anche per uscire dall'orticello delle solite facce e dei soliti 4 gatti che popolano le varie ferie collaterali a cui fa riferimento ancora Radikon quando dice ciao ciao a tutti e se ne va al Vinitaly delle meraviglie commerciali. Che si fa? Tutti dietro a Radikon e ognun per sè? Uniamo le fiere vino-veriste da qualche parte o da qualche parte che è il Vinitaly? La questione è lunga e dovunque la tocchi sento delle spine.
nota 3: Certo è divertente sentire come Radikon ebbe una prima intuizione verso quello che sarebbe diventata la sua ricerca nella macerazione dei bianchi:
"Un segnale "divino" arriva nell'annata '85. Siamo in giugno, una grandinata dirada notevolmente l'uva in vigna. Però quel poco che rimane è sano e figlio di un'annata ottima, sebbene con uve che hanno minore acidità rispetto ai parametri abituali. Per aumentarne il livello, ci vuole un'integrazione con l'acido tartarico, ma dai dati delle analisi di laboratorio, emerge che si dovrebbe fare un'aggiunta notevole, esagerata, e così si decide di lasciare tutto come la natura ha stabilito in quell'annata. I risultati furono sorprendenti, vini ottimi che però il mercato non apprezzò. Per Stanko era, però, il chiaro segnale che la via, che il destino aveva indicato, era quella giusta."
Il resto dell'articolo con intervista è qui.
nota 4: Ma tu guarda cosa scriveva qui qualche anno fa Roberto Gatti riguardo alla nuova tendenza critica demolitrice dei vinoni tutta ciccia e alcool. Per me è 1 a 0 e palla al centro.
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