
All'ultima Enologica a Faenza ho assistito ad una interessante conversazione tra Fabio Giavedoni e Helmut Zozin, direttore della cantina altoatesina Manincor. Tema il biodinamico e le dimensioni con le quali si può lavorare con questo metodo. Già, perché la Manincor è un'azienda grande, 45 ettari tra Caldaro e Terlano, e il biodinamico viene spesso associato a piccole aziende, un uomo solo in vigna, un ciuco spelacchiato per tirare su la terra e avanti tutti a pane e cipolle. Invece Zozin fa tutto in grande e modernamente e ci è venuto a spiegare come fa con pragmatismo tutto germanico. Ci ha detto del compost, delle pratiche naturali in vigna e in cantina. E ci ha detto anche tanti "Ma...". Ma se partono rifermentazioni e le acidità non si alzano, in cantina loro intervengono. Ma se le cavallette abbattono i filari, loro intervengono. Semplice. Se succede qualcosa, sarebbe stupido non intervenire. Preservano i loro prodotti e cercano di farli arrivare ad una soglia di eccellenza, perlomeno per come intendono loro l'eccellenza. Ossia, pulizia nei profumi, rotondità nel gusto, precisione. La conversazione è stata piacevole, franca, anche umile nell'esposizione delle proprie idee. Noi si lavora così perché a noi piacciono certi vini. Perfetto.
E difatti più tardi, mentre ero al banchetto di Vigne Dei Boschi, il signor Zozin è passato ad assaggiare i vini e difatti li ha bevuti tutti partendo dal sauvignon Sedicianime 2008 al sangiovese Poggio Tura 2004 e 2005 fino al malbo Settepievi 2005. E difatti ha fatto qualche mezzo complimento ai vini e poi, sollecitato, ha detto che si, c'era tanta materia ma anche tanti difetti, volatile, poca precisione nei profumi ("anche nel sauvignon 2008 che è il bianco più preciso fatto da Paolo Babini nella sua storia? Si, io cerco più pulizia"). E ridifatti ho avvertito uno scollamento tra queste sue rispettabilissime opinioni e una realtà di vini che indubbiamente non cercano pulizia e finezza ma potenza e ampiezza e, finanche, bevibilità. E ho avvertito un riverbero tra le sue parole e l'idea di vino che viene fuori dall'assaggio dei vini altoatesini. Perché da un recente giro (certo, non esaustivo) in quelle zone ho ricevuto l'impressione di vini (parlo di bianchi) dal discreto al buono, di vini precisi, fruttati, con acidità spesso evidenti e/o glicerina abbondante; vini molto spesso tecnici e irrigiditi che faticano a donarsi e ad allargarsi, vini che dopo le cavalcate sensoriali dei bianchi macerati paiono cedere il passo, perdere in complessità e beva, quasi fisiologicamente zoppi per arrivare alla soglia dell'eccellenza. Certo, moltissimi esempi di ottimi vini, alcuni traminer di grande potenza, sauvignon equilibrati ed espressivi, i kerner, i riesling. Ma nessuna bottiglia che faccia scoccare la scintilla. Teutonicamente integerrimi ma lacunosi in espansività. Un senso di stagnazione che forse prelude a qualche piccola rivoluzione. Ma, come ogni rivoluzione, questa dovrà forse essere accompagnata ad una crisi commerciale che per il momento (bontà loro) pare essere ammortizzata bene da corrette politiche commerciali e da sfoghi con mercati come quelli nord-europei. Almeno così dicono nelle cantine e nessuno si augura il contrario. Quello che ci si augura è che qualcosa possa cambiare nella concezione del vino in una zona meravigliosa naturalisticamente con meravigliose uve, che qualcuno, magari, inizi a provare vinificazioni diverse, con meno controllo e più incoscienza.
Sul fronte dei rossi il discorso è diverso. E' diverso in generale. Il vino rosso ha subito meno quello stacco gustativo che invece è stato rivoluzionario nei bianchi. L'espansione dei vini bio (-dinamici, -logici, -naturali) non è stato uno stacco così sconvolgente, certi sapori erano già in giro e una certa idea di naturale (almeno nel gusto) c'era già, certe pratiche di non intervento, di lunghe macerazioni facevano già parte dei nostri rossi. Perciò si è assistito magari solo a qualche slittamento nel gusto, una forma di rigetto verso quei vini iper-concentrati, fittiziamente concentrati, verso quelle dimostrazioni di muscoli anabolizzati, il tutto a favore di espressioni magari meno composte ma naturalmente disposte alla beva e alla digeribilità. Da questo punto di vista, l'Alto Adige è tuttora una grande terra di rossi, di grandi uve (Lagrein e Schiava, Merlot e Cabernet e Pinot Nero) e grandi interpreti. Pur in una gamma che a volte perde qualcosa in termini di opulenza e comunicatività, i migliori esempi sono croccanti espressione di frutto, densi e setosi senza scadere nella bolsità. I più densi giocano nell'equilibrio tra tannini maturi e dolcezze non impastanti, tra note boisè e rimandi alla linfa e ai frutti di bosco. E a ricordarci sempre i vertici capaci di raggiungere questa terra, c'è il nostro caro Lamarein.
E per non lasciare a bocca asciutta, ecco due assaggi fatti in zona.


Commenti
Posta un commento